MAI ARRENDERSI!!
In che modo praticare una disciplina marziale può aiutarci?
Attraverso la pratica possiamo decidere di avere dei traguardi: praticare un'arte marziale è una cosa che non tutti hanno la volontà e la forza di fare. A prima vista molti penseranno di trovarsi davanti ad uno sport come tanti altri; chi pratica da tempo sa invece che le arti marziali sono una ricerca infinita (mentale e fisica): con i Maestri e i compagni di allenamento giusti infatti si capisce che c'è qualcosa di più profondo in confronto ad un normale sport.
Ai giorni nostri molte persone (giovani ed adulti) stanno perdendo sempre di più una direzione da dare alla propria vita. Questa progressiva mancanza di "senso della vita" porta a blocchi mentali e fisici, le energie scompaiono, così come la creatività o lo spirito di iniziativa.
Un praticante di arti marziali che prende sul serio la propria disciplina ha invece migliaia di motivi per affrontare la giornata perché tramite la pratica trova una continua scoperta di sé, e vuole vedersi migliorare e crescere in tutti i settori della vita.
La pratica però deve essere seria, deve avere un senso: se non so perché pratico Karate e mi limito a ripetere dei movimenti meccanicamente, non sto davvero praticando Karate; se non so perché pratico il combattimento e penso solo che sia per picchiare il mio avversario più forte e non per scoprire chi sono, non sono davvero un pugile; in una gara di sport da combattimento non si gareggia solo per i premi che si guadagnano ma anche per dare un contributo ad altri, per scoprire e superare i propri limiti, per dimostrare chi siamo, per riscattarci da quello che eravamo...
Per questo noi praticanti dobbiamo sempre rimanere concentrati e motivati: perché credere in noi stessi è il primo passo per un sicuro successo!
A tal proposito voglio proporvi una storia che sicuramente vi darà molti motivi per fermarvi a riflettere sulla vostra pratica, perché la sola regola d'oro per un praticante è quella di NON FERMARSI MAI, nella vita come nel Dojo....comunque vada....
"...Tailandia. Il giovane Ting è attirato in particolar modo dall'elefante che, come scoprirà più tardi, era l'animale preferito di tanti altri bambini. Nel suo piccolo villaggio aveva occasione di vederne molti, venivano impiegati infatti nei lavori comuni. Durante il loro lavoro insieme agli uomini l'elefante faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune... ma dopo il lavoro, e fino ad un momento prima di iniziare, l'elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una corda legata ad una delle zampe. Il paletto però era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri, e anche se la corda era grossa a Ting pareva ovvio che un animale del genere avrebbe potuto liberarsi facilmente da quel paletto e fuggire.
Ting non capiva...che cosa teneva legato l'elefante?
Chiese in giro a tutte le persone che incontrava di risolvere il mistero dell'elefante; qualcuno gli disse che l'elefante non scappava perché era addomesticato... allora Ting poneva un'altra domanda ovvia: "Se è ammaestrato, perché lo legano?". Nessuno riuscì a dargli una risposta coerente. Un giorno il vecchio del villaggio notò Ting che curioso ammirava l'elefante legato e capì il dubbio che assaliva il ragazzo. Il vecchio si avvicinò e chiese a Ting se si stesse chiedendo perché l'elefante non strappasse via il paletto guadagnando la libertà; Ting annuì e il vecchio spiegò: l'elefante del cantiere non scappava perché era stato legato ad un paletto simile fin da quando era molto molto piccolo.
Ting chiuse gli occhi e immaginò l'elefantino indifeso e appena nato che provava a spingere e tirare mentre faticava per liberarsi ma, nonostante gli sforzi, non riusciva a liberarsi da quel maledetto paletto che allora era troppo saldo per lui. L'elefantino in seguito doveva essersi rassegnato e l'elefante adulto, enorme e possente che adesso era di fronte a Ting non scappava semplicemente perché credeva di non poterlo fare: sulla sua pelle oramai era impressa la credenza di non essere in grado di liberarsi, la certezza dell'insuccesso dopo tanti vani tentativi lo aveva portato a non tentare mai più di liberarsi, non aveva mai più messo alla prova la propria forza, e adesso viveva legato ad un misero paletto nonostante le sue capacità..."
A volte viviamo anche noi come l'elefante, pensando di non poter fare o di non riuscire in molte cose semplicemente perché una volta, tempo fa, ci avevamo provato ed avevamo fallito e da allora sulla pelle abbiamo inciso "non potevo, non posso e non potrò". L'unico modo per sapere se possiamo farcela è provare, e provare di nuovo mettendoci tutto il cuore... tutto se stessi, ed alla fine anche i nostri paletti salteranno via uno ad uno.
Attraverso la pratica possiamo decidere di avere dei traguardi: praticare un'arte marziale è una cosa che non tutti hanno la volontà e la forza di fare. A prima vista molti penseranno di trovarsi davanti ad uno sport come tanti altri; chi pratica da tempo sa invece che le arti marziali sono una ricerca infinita (mentale e fisica): con i Maestri e i compagni di allenamento giusti infatti si capisce che c'è qualcosa di più profondo in confronto ad un normale sport.
Ai giorni nostri molte persone (giovani ed adulti) stanno perdendo sempre di più una direzione da dare alla propria vita. Questa progressiva mancanza di "senso della vita" porta a blocchi mentali e fisici, le energie scompaiono, così come la creatività o lo spirito di iniziativa.
Un praticante di arti marziali che prende sul serio la propria disciplina ha invece migliaia di motivi per affrontare la giornata perché tramite la pratica trova una continua scoperta di sé, e vuole vedersi migliorare e crescere in tutti i settori della vita.
La pratica però deve essere seria, deve avere un senso: se non so perché pratico Karate e mi limito a ripetere dei movimenti meccanicamente, non sto davvero praticando Karate; se non so perché pratico il combattimento e penso solo che sia per picchiare il mio avversario più forte e non per scoprire chi sono, non sono davvero un pugile; in una gara di sport da combattimento non si gareggia solo per i premi che si guadagnano ma anche per dare un contributo ad altri, per scoprire e superare i propri limiti, per dimostrare chi siamo, per riscattarci da quello che eravamo...
Per questo noi praticanti dobbiamo sempre rimanere concentrati e motivati: perché credere in noi stessi è il primo passo per un sicuro successo!
A tal proposito voglio proporvi una storia che sicuramente vi darà molti motivi per fermarvi a riflettere sulla vostra pratica, perché la sola regola d'oro per un praticante è quella di NON FERMARSI MAI, nella vita come nel Dojo....comunque vada....
"...Tailandia. Il giovane Ting è attirato in particolar modo dall'elefante che, come scoprirà più tardi, era l'animale preferito di tanti altri bambini. Nel suo piccolo villaggio aveva occasione di vederne molti, venivano impiegati infatti nei lavori comuni. Durante il loro lavoro insieme agli uomini l'elefante faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune... ma dopo il lavoro, e fino ad un momento prima di iniziare, l'elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una corda legata ad una delle zampe. Il paletto però era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri, e anche se la corda era grossa a Ting pareva ovvio che un animale del genere avrebbe potuto liberarsi facilmente da quel paletto e fuggire.
Ting non capiva...che cosa teneva legato l'elefante?
Chiese in giro a tutte le persone che incontrava di risolvere il mistero dell'elefante; qualcuno gli disse che l'elefante non scappava perché era addomesticato... allora Ting poneva un'altra domanda ovvia: "Se è ammaestrato, perché lo legano?". Nessuno riuscì a dargli una risposta coerente. Un giorno il vecchio del villaggio notò Ting che curioso ammirava l'elefante legato e capì il dubbio che assaliva il ragazzo. Il vecchio si avvicinò e chiese a Ting se si stesse chiedendo perché l'elefante non strappasse via il paletto guadagnando la libertà; Ting annuì e il vecchio spiegò: l'elefante del cantiere non scappava perché era stato legato ad un paletto simile fin da quando era molto molto piccolo.
Ting chiuse gli occhi e immaginò l'elefantino indifeso e appena nato che provava a spingere e tirare mentre faticava per liberarsi ma, nonostante gli sforzi, non riusciva a liberarsi da quel maledetto paletto che allora era troppo saldo per lui. L'elefantino in seguito doveva essersi rassegnato e l'elefante adulto, enorme e possente che adesso era di fronte a Ting non scappava semplicemente perché credeva di non poterlo fare: sulla sua pelle oramai era impressa la credenza di non essere in grado di liberarsi, la certezza dell'insuccesso dopo tanti vani tentativi lo aveva portato a non tentare mai più di liberarsi, non aveva mai più messo alla prova la propria forza, e adesso viveva legato ad un misero paletto nonostante le sue capacità..."
A volte viviamo anche noi come l'elefante, pensando di non poter fare o di non riuscire in molte cose semplicemente perché una volta, tempo fa, ci avevamo provato ed avevamo fallito e da allora sulla pelle abbiamo inciso "non potevo, non posso e non potrò". L'unico modo per sapere se possiamo farcela è provare, e provare di nuovo mettendoci tutto il cuore... tutto se stessi, ed alla fine anche i nostri paletti salteranno via uno ad uno.