"Vincere perdendo"
G. Funakoshi Sensei
Vorrei raccontare due episodi che potrebbero, io credo, aiutarvi a comprendere l’essenza del karate-do. Tutti e due si svolsero molti anni fa nella campagna di Okinawa e dimostrano come un uomo possa vincere rinunciando alla vittoria.
Il primo accadde a Sud Ovest del Castello di Shuri, sulla strada che conduce alla Villa di un Governatore chiamato Ochaya Goten. Dentro le mura dell’edificio si trovava un gazebo di the costruito secondo l’antico stile di Nara che offriva una bella veduta sul Pacifico. Il Governatore ci andava per riposarsi e per rilassarsi con la moglie e i figli.
Questa dimora si trovava a poco più di un chilometro da Shuri e la strada pavimentata che vi arrivava era costeggiata sui due lati da dei pini molto alti. Un giorno la casa cessò di essere proprietà del governatore e fu aperta al pubblico. Una notte mi ci recai con il Maestro Itosu una dozzina di altri karateka nella sera di Tsukimi. Felici di essere tutti insieme, perdemmo la nozione del tempo con le nostre discussioni e le recitazioni di poesie, e la serata si prolungò fino a molto tardi. Finalmente, decidemmo che era arrivata l’ora di rientrare e riprendemmo il cammino verso Shuri, lungo la via costeggiata dai pini. La luna era velata da spesse nubi e i più giovani portavano delle lanterne per fare luce al maestro. Soudain, l’uomo che conduceva il gruppo ci gridò di spegnere le lanterne; noi obbedimmo subito. Ci spiegò quindi che eravamo sul punto di essere attaccati. I nostri assalitori non sembravano più numerosi di noi, quindi avevamo di sicuro una possibilità in più di successo e i nostri avversari, a meno che anche loro non fossero stati dei karateka, sarebbero stati sicuramente battuti. Era così buio che non potevamo distinguere i loro volti. Mi voltai allora verso Itosu per chiedergli istruzioni, ma tutto quel che ottenni da lui fu: “Girate la schiena alla luna! Girate la schiena alla luna!”
Ero piuttosto sorpreso in quanto speravo che il nostro maestro ci avrebbe dato l’occasione di servirci della nostra arte. Eravamo tutti pronti a scontrarci con questa banda di malviventi. Ma sentirci dire “Girate la schiena alla luna!” sembrava assurdo!
Dopo qualche minuto mi disse: “Funakoshi, perché non vai a vedere cosa vogliono? Può darsi che in fondo non siano cattive persone, e se dici loro che faccio parte del gruppo, forse farà la differenza.” Mi avvicinai quindi al gruppo in agguato. “Ne arriva uno! – Sentii gridare – Ne arriva uno, preparatevi!” L’atmosfera sembrava quella che regna prima di una battaglia.
Avvicinandomi mi resi conto che quelli che avevamo preso per avversari si erano coperti il volto con dei veli così che per noi fu impossibile identificarli. Come mi era stato chiesto, li informai educatamente che il maestro Itosu faceva parte del nostro gruppo e che noi eravamo tutti suoi allievi. “Forse – aggiunsi – sbagliate avversari”.
“Itosu? E chi è? – rispose un membro del gruppo – Mai sentito parlare di lui!”
Un altro, vedendo come ero piccolo, gridò: “Non sei che un ragazzino! Come osi mettere il naso in affari da uomini? Vattene!” E aggiunse il gesto alla frase, facendo finta di spingermi via.
Abbassai le anche e mi misi in guardia, sentii allora la voce di Itosu: “Calma Funakoshi! Ascolta cosa hanno da dire, parla con loro”.
“Bene – dissi – cosa avete contro di noi? Vi ascolto!”
Prima ancora che qualcuno avesse il tempo di replicare, fummo raggiunti da un altro gruppo di uomini visibilmente ubriachi che rientravano cantando a squarciagola. Quando furono sufficientemente vicini per capire che eravamo al centro di una disputa, si prepararono alla possibilità di assistere a una sanguinosa lotta. Ma uno di loro riconobbe il nostro maestro.
“Voi siete il maestro Itosu! – Gridò – Non è vero? Sì che siete voi! Cosa succede?” Poi si girò verso quelli che ci volevano attaccare: “Ma siete pazzi? Non sapete chi sono queste persone? Questo è il maestro Itosu con i suoi allievi! Dieci o venti di voi non potrebbero mai batterlo! Fareste meglio a scusarvi subito!”
Non ci furono scuse, a dire la verità, ma i membri del gruppo mormorarono tra di loro un momento, dopodichè sparirono senza rumore nella notte. Allora Itosu ci dette un altro ordine che tutti trovammo abbastanza misterioso: dovemmo tornare sui nostri passi e fare una deviazione per arrivare fino a Shuri. Durante il tragitto nessuno fece allusione al nostro incontro; poi, davanti alla sua dimora, fece promettere a tutti che avremmo taciuto.
“Avete fatto un buon lavoro stasera, ragazzi. Sono sicuro che diventerete dei grandi karateka, ma nessuna parola su ciò che è successo stasera, non ne parlate a nessuno! Capito?”.
Più tardi venni a sapere che i membri della banda erano venuti a scusarsi presso il maestro Itosu. Quelli che noi avevamo preso per dei ladri o dei vagabondi erano in realtà dei sanka, ovvero dei lavoratori di un villaggio vicino dove veniva distillato l’awamori, uno dei liquori più forti di Okinawa. Erano uomini volgari, prepotenti, fieri della loro forza fisica e che quella notte ci avevano presi come una buona occasione per misurare le loro abilità.
Compresi allora tutta la finezza del maestro che ci aveva fatto prendere una nuova strada per evitare altri incontri. E’ qui, credo, che sta il segreto del karate. Mi vergogno molto al pensiero che senza Itosu avrei utilizzato la mia tecnica e la mia forza contro degli uomini inesperti.
Il secondo episodio, di natura più o meno simile, ha una fine più soddisfacente. Prima di tutto però devo spendere qualche parola sulla famiglia di mia moglie. Per molto tempo fecero prove su delle piante di patate dolci per migliorarle. Erano piuttosto benestanti ma dovettero attraversare dei momenti molto difficili con il ritorno dei Meiji nel 1868.
Dovettero spostarsi in un piccolo villaggio, chiamato Mawashi, situato a circa quattro chilometri da Naha. Mio suocero, membro convinto del Partito degli Ostinati, era diventato un po’ eccentrico. Quando era bel tempo sorvegliava i suoi campi; se pioveva rimaneva a casa a leggere. E questa era tutta la sua attività. Mia moglie gli voleva molto bene. Un giorno di festa lei si recò a casa del padre con i nostri figli per passare un lungo e piacevole momento in sua compagnia. Tardi, nel pomeriggio, presi la strada per il villaggio poiché non volevo lasciare che la mia famiglia facesse ritorno da sola di notte. L’unica strada per Mawashi serpeggiava attraverso delle pinete e era molto buio in quel tardo pomeriggio. Dunque fui molto sorpreso quando due uomini si precipitarono allo scoperto per sbarrarmi la strada. Si erano coperti il volto proprio come gli aggressori di cui ho scritto poco fa. Era chiaro che non cercavano soltanto una lite. “Bene – disse uno dei due con tono piuttosto insolente – non stare lì come se tu fossi muto e sordo. Sai che cosa vogliamo. Parla! Di’ ‘Buonasera Signori’, e anche ‘Che bella giornata’! Non farci perdere tempo, o lo rimpiangerai, te lo prometto!”
Più si innervosivano e più mi sentivo calmo. Capii, dal modo in cui quello che mi aveva parlato teneva i suoi pugni, che non era un karateka; anche l’altro, che aveva un lungo bastone, non lo sembrava affatto.
“Non mi starete scambiando per qualcun altro?” Domandai “Ci deve sicuramente essere un errore, magari se proviamo a chiarirci…”
“Taci, stupido – urlò l’uomo col bastone – con chi credi di parlare?”
Avanzarono entrambi verso di me ma non mi sentivo affatto intimidito.
“Sembra – dissi – che stiamo per combattere ma, francamente, vi consiglio di non insistere. Credo che tutto ciò non vi porterebbe nessun vantaggio in quanto…” L’uomo alzò subito la sua arma. “… in quanto – proseguii rapidamente – io non combatto affatto se non sono convinto di vincere oppure se sapessi che sicuramente perderei. E allora, perché dovrei battermi? Non ne vedo davvero il motivo”.
A queste parole sembrarono calmarsi un po’.
“Bene – disse uno dei due – non ci tieni a batterti. Dacci allora il tuo denaro”
“Non ne ho” risposi mostrando loro le mie tasche vuote.
“Del tabacco allora!”
“Non fumo”
Il mio unico tesoro erano alcuni manju – dolcetti tradizionali a base di farina di frumento e pasta di soia – che stavo portando in offerta a casa dei miei suoceri.
“Ecco – dissi loro – prendete questi”.
“Soltanto dei manju” – esclamarono dispiaciuti – “Beh, meglio di niente”. E uno di loro mise in tasca il dolcetto.
“Faresti meglio ad andare, e sii prudente, la strada non è molto sicura” e sparirono nella foresta.
Qualche giorno più tardi mi trovavo con Azato e Itosu e, durante una conversazione, raccontai loro l’accaduto. Itosu fu il primo a congratularsi con me. Disse che mi ero comportato con grande giustizia e che le ore passate ad insegnarmi il karate non erano passate invano.
“Ma – domandò sorridendo Azato – dato che non avevi più manju, cosa hai offerto a tuo suocero?”
“Poiché non avevo altre offerte – risposi – ciò che gli ho donato è stata una preghiera sincera”.
“Tu hai ben agito – esclamò Azato – questo è lo spirito giusto del karate. Adesso hai capito davvero che cosa significa”.
Provai a celare il mio entusiasmo. Nessuno dei miei due maestri aveva mai fatto un minimo complimento sui miei kata e io in quel giorno ricevetti le congratulazioni di entrambi. Provai, mescolata alla fierezza, una gioia inestinguibile.
Il primo accadde a Sud Ovest del Castello di Shuri, sulla strada che conduce alla Villa di un Governatore chiamato Ochaya Goten. Dentro le mura dell’edificio si trovava un gazebo di the costruito secondo l’antico stile di Nara che offriva una bella veduta sul Pacifico. Il Governatore ci andava per riposarsi e per rilassarsi con la moglie e i figli.
Questa dimora si trovava a poco più di un chilometro da Shuri e la strada pavimentata che vi arrivava era costeggiata sui due lati da dei pini molto alti. Un giorno la casa cessò di essere proprietà del governatore e fu aperta al pubblico. Una notte mi ci recai con il Maestro Itosu una dozzina di altri karateka nella sera di Tsukimi. Felici di essere tutti insieme, perdemmo la nozione del tempo con le nostre discussioni e le recitazioni di poesie, e la serata si prolungò fino a molto tardi. Finalmente, decidemmo che era arrivata l’ora di rientrare e riprendemmo il cammino verso Shuri, lungo la via costeggiata dai pini. La luna era velata da spesse nubi e i più giovani portavano delle lanterne per fare luce al maestro. Soudain, l’uomo che conduceva il gruppo ci gridò di spegnere le lanterne; noi obbedimmo subito. Ci spiegò quindi che eravamo sul punto di essere attaccati. I nostri assalitori non sembravano più numerosi di noi, quindi avevamo di sicuro una possibilità in più di successo e i nostri avversari, a meno che anche loro non fossero stati dei karateka, sarebbero stati sicuramente battuti. Era così buio che non potevamo distinguere i loro volti. Mi voltai allora verso Itosu per chiedergli istruzioni, ma tutto quel che ottenni da lui fu: “Girate la schiena alla luna! Girate la schiena alla luna!”
Ero piuttosto sorpreso in quanto speravo che il nostro maestro ci avrebbe dato l’occasione di servirci della nostra arte. Eravamo tutti pronti a scontrarci con questa banda di malviventi. Ma sentirci dire “Girate la schiena alla luna!” sembrava assurdo!
Dopo qualche minuto mi disse: “Funakoshi, perché non vai a vedere cosa vogliono? Può darsi che in fondo non siano cattive persone, e se dici loro che faccio parte del gruppo, forse farà la differenza.” Mi avvicinai quindi al gruppo in agguato. “Ne arriva uno! – Sentii gridare – Ne arriva uno, preparatevi!” L’atmosfera sembrava quella che regna prima di una battaglia.
Avvicinandomi mi resi conto che quelli che avevamo preso per avversari si erano coperti il volto con dei veli così che per noi fu impossibile identificarli. Come mi era stato chiesto, li informai educatamente che il maestro Itosu faceva parte del nostro gruppo e che noi eravamo tutti suoi allievi. “Forse – aggiunsi – sbagliate avversari”.
“Itosu? E chi è? – rispose un membro del gruppo – Mai sentito parlare di lui!”
Un altro, vedendo come ero piccolo, gridò: “Non sei che un ragazzino! Come osi mettere il naso in affari da uomini? Vattene!” E aggiunse il gesto alla frase, facendo finta di spingermi via.
Abbassai le anche e mi misi in guardia, sentii allora la voce di Itosu: “Calma Funakoshi! Ascolta cosa hanno da dire, parla con loro”.
“Bene – dissi – cosa avete contro di noi? Vi ascolto!”
Prima ancora che qualcuno avesse il tempo di replicare, fummo raggiunti da un altro gruppo di uomini visibilmente ubriachi che rientravano cantando a squarciagola. Quando furono sufficientemente vicini per capire che eravamo al centro di una disputa, si prepararono alla possibilità di assistere a una sanguinosa lotta. Ma uno di loro riconobbe il nostro maestro.
“Voi siete il maestro Itosu! – Gridò – Non è vero? Sì che siete voi! Cosa succede?” Poi si girò verso quelli che ci volevano attaccare: “Ma siete pazzi? Non sapete chi sono queste persone? Questo è il maestro Itosu con i suoi allievi! Dieci o venti di voi non potrebbero mai batterlo! Fareste meglio a scusarvi subito!”
Non ci furono scuse, a dire la verità, ma i membri del gruppo mormorarono tra di loro un momento, dopodichè sparirono senza rumore nella notte. Allora Itosu ci dette un altro ordine che tutti trovammo abbastanza misterioso: dovemmo tornare sui nostri passi e fare una deviazione per arrivare fino a Shuri. Durante il tragitto nessuno fece allusione al nostro incontro; poi, davanti alla sua dimora, fece promettere a tutti che avremmo taciuto.
“Avete fatto un buon lavoro stasera, ragazzi. Sono sicuro che diventerete dei grandi karateka, ma nessuna parola su ciò che è successo stasera, non ne parlate a nessuno! Capito?”.
Più tardi venni a sapere che i membri della banda erano venuti a scusarsi presso il maestro Itosu. Quelli che noi avevamo preso per dei ladri o dei vagabondi erano in realtà dei sanka, ovvero dei lavoratori di un villaggio vicino dove veniva distillato l’awamori, uno dei liquori più forti di Okinawa. Erano uomini volgari, prepotenti, fieri della loro forza fisica e che quella notte ci avevano presi come una buona occasione per misurare le loro abilità.
Compresi allora tutta la finezza del maestro che ci aveva fatto prendere una nuova strada per evitare altri incontri. E’ qui, credo, che sta il segreto del karate. Mi vergogno molto al pensiero che senza Itosu avrei utilizzato la mia tecnica e la mia forza contro degli uomini inesperti.
Il secondo episodio, di natura più o meno simile, ha una fine più soddisfacente. Prima di tutto però devo spendere qualche parola sulla famiglia di mia moglie. Per molto tempo fecero prove su delle piante di patate dolci per migliorarle. Erano piuttosto benestanti ma dovettero attraversare dei momenti molto difficili con il ritorno dei Meiji nel 1868.
Dovettero spostarsi in un piccolo villaggio, chiamato Mawashi, situato a circa quattro chilometri da Naha. Mio suocero, membro convinto del Partito degli Ostinati, era diventato un po’ eccentrico. Quando era bel tempo sorvegliava i suoi campi; se pioveva rimaneva a casa a leggere. E questa era tutta la sua attività. Mia moglie gli voleva molto bene. Un giorno di festa lei si recò a casa del padre con i nostri figli per passare un lungo e piacevole momento in sua compagnia. Tardi, nel pomeriggio, presi la strada per il villaggio poiché non volevo lasciare che la mia famiglia facesse ritorno da sola di notte. L’unica strada per Mawashi serpeggiava attraverso delle pinete e era molto buio in quel tardo pomeriggio. Dunque fui molto sorpreso quando due uomini si precipitarono allo scoperto per sbarrarmi la strada. Si erano coperti il volto proprio come gli aggressori di cui ho scritto poco fa. Era chiaro che non cercavano soltanto una lite. “Bene – disse uno dei due con tono piuttosto insolente – non stare lì come se tu fossi muto e sordo. Sai che cosa vogliamo. Parla! Di’ ‘Buonasera Signori’, e anche ‘Che bella giornata’! Non farci perdere tempo, o lo rimpiangerai, te lo prometto!”
Più si innervosivano e più mi sentivo calmo. Capii, dal modo in cui quello che mi aveva parlato teneva i suoi pugni, che non era un karateka; anche l’altro, che aveva un lungo bastone, non lo sembrava affatto.
“Non mi starete scambiando per qualcun altro?” Domandai “Ci deve sicuramente essere un errore, magari se proviamo a chiarirci…”
“Taci, stupido – urlò l’uomo col bastone – con chi credi di parlare?”
Avanzarono entrambi verso di me ma non mi sentivo affatto intimidito.
“Sembra – dissi – che stiamo per combattere ma, francamente, vi consiglio di non insistere. Credo che tutto ciò non vi porterebbe nessun vantaggio in quanto…” L’uomo alzò subito la sua arma. “… in quanto – proseguii rapidamente – io non combatto affatto se non sono convinto di vincere oppure se sapessi che sicuramente perderei. E allora, perché dovrei battermi? Non ne vedo davvero il motivo”.
A queste parole sembrarono calmarsi un po’.
“Bene – disse uno dei due – non ci tieni a batterti. Dacci allora il tuo denaro”
“Non ne ho” risposi mostrando loro le mie tasche vuote.
“Del tabacco allora!”
“Non fumo”
Il mio unico tesoro erano alcuni manju – dolcetti tradizionali a base di farina di frumento e pasta di soia – che stavo portando in offerta a casa dei miei suoceri.
“Ecco – dissi loro – prendete questi”.
“Soltanto dei manju” – esclamarono dispiaciuti – “Beh, meglio di niente”. E uno di loro mise in tasca il dolcetto.
“Faresti meglio ad andare, e sii prudente, la strada non è molto sicura” e sparirono nella foresta.
Qualche giorno più tardi mi trovavo con Azato e Itosu e, durante una conversazione, raccontai loro l’accaduto. Itosu fu il primo a congratularsi con me. Disse che mi ero comportato con grande giustizia e che le ore passate ad insegnarmi il karate non erano passate invano.
“Ma – domandò sorridendo Azato – dato che non avevi più manju, cosa hai offerto a tuo suocero?”
“Poiché non avevo altre offerte – risposi – ciò che gli ho donato è stata una preghiera sincera”.
“Tu hai ben agito – esclamò Azato – questo è lo spirito giusto del karate. Adesso hai capito davvero che cosa significa”.
Provai a celare il mio entusiasmo. Nessuno dei miei due maestri aveva mai fatto un minimo complimento sui miei kata e io in quel giorno ricevetti le congratulazioni di entrambi. Provai, mescolata alla fierezza, una gioia inestinguibile.